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16-04-2009
Gli spazi pubblici sono l’anima della città e la ragione della sua invenzione; sono il luogo nel quale società e città s’incontrano e generano comunità.
Ma sono a rischio. Quali sono le ragioni del loro deperimento? Che cosa fare per difenderli e riconquistarli? A questi interrogativi posti dal giornalista Francesco Erbani,
l’urbanista Edoardo Salzano, già docente universitario e amministratore di città metropolitane come Roma e Venezia, ha dato alcuni spunti di riflessione, elementi di
conoscenza e risposte nella sua lectio magistralis tenuta davanti a una attenta e affollata platea della Sala Estense, formata in gran parte da studenti universitari. La lezione
aperta di Salzano ha inaugurato la lunga e articolata serie di incontri con esperti e personalità del settore urbanistico che si concluderà domenica sera. “Le
Amministrazioni pubbliche trasparenti e corrette ha risposto Salzano nella parte finale dell’incontro dedicata al dialogo con il pubblico – devono aiuta! re i cittadini a
partecipare alle decisioni in materia urbanistica. Spesso invece le decisioni degli amministratori vengono conosciute quando ormai è già troppo tardi per modificarle.
Una volta si pianificavano le urbanizzazioni in base al fabbisogno reale; oggi vi sono interi quartieri nuovi disabitati segno che occorre fare molta attenzione nel pianificare.
C’è chi ci spinge a utilizzare sempre meno gli spazi pubblici e questa è una vera e propria ideologia che condiziona molto la nostra vita di tutti i giorni, un modo di
pensare che non può e non deve affermarsi e va contrastato con un’altra ideologia più forte, di apertura verso l’utilizzo degli spazi pubblici”, una preziosa risorsa
per le comunità che li condividono.
“La città, la comunità, gli spazi pubblici” di Edoardo Salzano
Lectio magistralis con cui si inaugura oggi, 16 aprile, il CittàTerritorio Festival 2009.
(testo tratto dal sito http://eddyburg.it/)
Il tema
Il tema che mi è stato assegnato mi sembra particolarmente centrato. Per una ragione di fondo e per una ragione contingente.
La ragione di fondo. Il nesso tra i tre termini (città, comunità, spazi pubblici) esprime compiutamente lessenza stessa della civiltà urbana: dalla
nascita, anzi, dall invenzione della città, fino alle sue attuali difficoltà.
La ragione contingente. Le cause della crisi attuale della città (e della civiltà urbana) stanno proprio nella decadenza progressiva e concatenata di quei tre termini
(città, comunità, spazi pubblici): una decadenza che comincia con la riduzione della comunità a mera aggregazione di individui, prosegue con lerosione e
il decadimento degli spazi pubblici, e non può concludersi se non la contrastiamo – che con la morte della città.
La ricchezza, il senso, i problemi della civiltà urbana non sono del resto comprensibili se non si tiene stretta la triade urbs, civitas, polis: città come
realtà fisica, città come società, città come governo.
Gli spazi pubblici nella storia della città
La città nasce con gli spazi pubblici
Si può dire che la città nasce con gli spazi pubblici. Si può dire che luomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo nellambiente, genera
quella sua meravigliosa invenzione che è la città a un certo momento della sua vicenda: precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura,
nasce lesigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire linsieme della
comunità.
È questa la ragione di fondo per cui nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme,
commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni.
La piazza: incontro, mixitè, rappresentazione, celebrazione
Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo
dellincontro tra le persone (i ricchi e i poveri, i cittadini e i foresti, i proprietari e i proletari, gli adulti e i bambini). Le piazze come i luoghi della mixitè e
della libertà.
Nelle piazze i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano
informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando cera un evento importante per la città. E il ruolo che svolgevano era sempre correlato alle
condizioni della società, al tempo e al contesto cui erano riferiti: un allarme o una festa, la celebrazione di una vittoria o di una festa religiosa, la pronuncia di un
giudizio o una sanguinosa esecuzione.
I luoghi del consumo comune
Le piazze non erano solo dei luoghi aperti. Erano lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e
il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Il loro ruolo sarebbe stato sterile se non fossero state parte integrante del sistema dei luoghi ordinati al consumo
comune dello scambio e del giudizio, della celebrazione dei valori comuni e del governo della polis.
Le piazze erano i fuochi dellordinamento della città. Le piazze e le strade che le connettevano costituivano lossatura della città. Le abitazioni e le
botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze era inconcepibile come un corpo umano senza scheletro.
Non sono comuni solo gli spazi pubblici
Se noi guardiamo con una certa attenzione la rappresentazione di una città del medioevo europeo troviamo la puntuale testimonianza di questo ruolo ordinatore del sistema
degli spazi pubblici. Ma troviamo anche un più ampio significato del concetto di spazio pubblico. Vediamo che non è pubblico solo il sistema degli spazi, aperti e
costruiti, duso collettivo, ma è pubblico, comune, anche qualcosaltro. Qualcosa che determina il modo in cui i luoghi peculiari al privato (la casa, il capannone,
la bottega) vengano ordinati.
Sono pubbliche, insomma, anche le regole che guidano lintervento delle famiglie, degli abitanti, delle imprese. Regole scritte, a volte disegnate, e regole determinate dalla
cultura costruttiva. Regole prescritte dalla politica fondiaria della città, che a volte era padrona del terreno sul quale la città sorgeva, e ne dava in uso i lotti
alle famiglie, altre volte imponeva norme e criteri per lutilizzazione delle aree private.
Possiamo dire che inizia un percorso dal concetto di spazio pubblico al concetto di città pubblica: non sono più comuni, collettivi, pubblici solo una serie di spazi
ritagliati dallinsieme del contesto urbano, ma è la città in quanto tale che riconosciamo come struttura comune, collettiva, pubblica.
Dalla fabbrica al welfare
Una rottura
Il conflitto tra dimensione privata e dimensione collettiva, tra momento individuale e momento collettivo si è sempre manifestato nella storia come quello tra
esclusione e inclusione. Con il trionfo del sistema capitalistico-borghese esso assume una configurazione particolarmente rilevante per la città.
Il prevalere dellindividualismo porta a due conseguenze, entrambe negative. Sul versante della struttura, esso conduce alla frammentazione e privatizzazione della
proprietà del suolo urbano, minando una delle basi della capacità regolativa della polis. Sul versante dellideologia conduce allaffievolirsi dei vincoli e
dei valori sociali impliciti nel concetto di cittadinanza.
Ma dallaltro lato le caratteristiche proprie della produzione capitalistica provocano effetti di segno opposto. Linclusione di tutti i portatori di forza lavoro, i servi
sfuggiti alla miseria delle campagne e accorsi alla città la cui aria li renderà liberi pone le premesse materiali allallargamento della democrazia.
Contemporaneamente il conflitto di classe che di quel sistema è linevitabile prodotto conduce al formarsi di una nuova solidarietà nel campo del lavoro. Possiamo
dire che sindebolisce la solidarietà cittadina ma nasce e sirrobustisce la solidarietà di fabbrica e da questa, progressivamente, germoglia una nuova
domanda di spazio pubblico.
Dal movimento culturale, sociale e politico scaturito dalla solidarietà di fabbrica nasce la spinta a ottenere il soddisfacimento di bisogni antichi negati dal prevalere del
nuovo sistema e, soprattutto, di nuovi bisogni nati dallaffermarsi della democrazia: attraverso le loro azioni e le loro rappresentanze entrano nel campo dei decisori le
grandi masse fino allora escluse.
e una faticosa conquista
Lincontro tra la pressione organizzata del mondo del lavoro e il pensiero critico e costruttivo degli intellettuali riuscì a incidere in modo consistente
sullallargamento dello spazio pubblico, nella città e nella società. Nel corso del secolo breve possiamo infatti vedere laffermarsi di alcune
componenti di quel carattere pubblico della città che prenderà il nome di diritto alla città e, nei nostri anni e con un significato analogo,
città come bene comune.
Lo vediamo nellaffermarsi del diritto socialmente garantito alluso di un alloggio adeguato alle necessità, e alla capacità di spesa, delle famiglie degli
addetti alla produzione. Come lo vediamo nella nascita, e poi nel consolidamento, di servizi che soddisfano collettivamente alcuni dei bisogni che nel passato erano svolti
nellambito familiare: dallapprendimento alla cura della prole, dalla salute alla cultura. Le scuole, gli asili nido, le biblioteche, gli ambulatori e gli ospedali, i
parchi e le palestre cominciano a diventare presenze la cui quantità e qualità misura il grado di civiltà dei diversi stati.
Nei paesi della socialdemocrazia europea interi quartieri, intere parti di città vengono progettate, costruite e gestite per le famiglie degli operai e degli impiegati, con
una ricchezza di dotazioni pubbliche che solo molto più tardi vengono raggiunte altrove.
Le riforme in Italia
In Italia, allinizio del XX secolo cominciano a nascere iniziative mutualistiche e municipali per affrontare socialmente il problema della casa per determinate categorie di
cittadini più bisognose. Ma poi occorre aspettare la caduta del fascismo, linstaurazione della Repubblica fondata sul lavoro e il superamento della fase
contraddittoria della ricostruzione per compiere alcuni passi rilevanti.
È negli anni Sessanta del secolo scorso che si sviluppano iniziative che conducono ad avvicinarsi al raggiungimento di tre grandi obiettivi della città
pubblica:
– la presenza diffusa e generalizzata di spazi destinati alle attività collettive;
– il controllo pubblico di tutte le componenti dello stock abitativo (dalledilizia pubblica a quella sociale e a quella privata);
– la generalizzazione della definizione e del controllo di regole comuni alle trasformazioni del territorio, in particolare quelle derivate dallurbanizzazione.
Questi obiettivi sono stati raggiunti in modo incompleto. In particolare, non è stato raggiunto quello che avrebbe dovuto costituire la base strutturale degli altri
obiettivi: il controllo della rendita immobiliare
La rendita
Ricordiamo che cosè la rendita. Essa è la quota di reddito che non corrisponde né allo svolgimento di un lavoro (salario) né alesercizio di
unattività imprenditiva (profitto). Esso remunera unicamente la proprietà. In particolare, la rendita immobiliare urbana si forma e cresce per effetto delle
decisioni e gli interventi della collettività, storica e attuale. Che un suolo da agricolo sia diventato o diventi oggi urbano non è dipeso né dipende certo
dallingegno, dallimprenditorialità, dal lavoro del suo proprietario. Perciò gli economisti classici e il pensiero liberale parlano di rendita parassitaria.
È la città, la sua espansione, la sua attrezzatura che determinano lincremento del valore della rendita. Quindi è fortissimo linteresse dei
proprietari di dettar legge nelle regole della città. Storicamente ci sono riusciti spesso, soprattutto in Italia. Ed è la pressione della rendita, e
larrendevolezza verso di esse dei decisori pubblici, che rendono invivibili le ci! ttà.
Controllare la rendita immobiliare, il suo accrescimento e la sua destinazione, è la condizione perché la collettività possa raggiungere nel concreto i propri
obiettivi. Finché quella condizione non viene raggiunta il conflitto tra interesse pubblico e interessi privati dei proprietari immobiliari minaccia continuamente di veder
soccombere il primo. Perché ciò non avvenga è necessario che linteresse collettivo sia rappresentato da un potere politico fortemente determinato a
difenderne le ragioni. Un simile potere politico, in Italia, si è manifestato solo in brevi ed eccezionali momenti, ma poi è stato sempre rapidamente sconfitto.
Successi e limiti
Gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono stati davvero centrali, in Italia, dal punto di vista della conquista di un assetto soddisfacente per la città e per
laffermazione del suo carattere pubblico. È utile ricordarne qualche elemento.
Sul piano legislativo e normativo i due grandi successi:
– laffermazione del diritto di ogni abitante di disporre di una determinata quantità di spazi pubblici (1967 e 1968), e il finanziamento degli spazi pubblici con gli
oneri di urbanizzazione e di costruzione (1977);
– lapprestamento degli strumenti per una politica della casa che consentivano il governo pubblico di tutti i segmenti dello stock abitativo: l edilizia pubblica e quella
sociale con i PEEP (1962-1971), la programmazione dellintervento pubblico con la filiera Stato-regioni-comuni (1971), il recupero delledilizia esistente e degradata
(1978), il calmieramento ragionevole del mercato privato (1979).
Vorrei sottolineare un insegnamento positivo: il forte impegno dei detentori del sapere nellazione sociale che cè stato in quegli anni. Ciò ha dato alle
masse le parole dordine e le soluzioni praticabili per cui lottare con successo.
Due le condizioni che lo hanno consentito:
1. la capacità degli intellettuali di ascoltare le esigenze inespresse che nascevano dalla società, e cercare e trovare gli argomenti, i fondamenti teorici, le
possibilità tecniche e le parole giuste per far comprendere i cambiamenti possibili;
2. la capacità della società di costruire e adoperare gli strumenti economici (il sindacato) e politici (i partiti) capaci di imporre le soluzioni
Ma voglio segnalare anche un insegnamento negativo: lapplicazione meramente burocratica, non innovativa, spesso ritardatrice degli stessi risultati raggiunti. Sia da parte
degli urbanisti e delle istituzioni.
Ad esempio, gli standard urbanistici e le zone territoriali omogenee erano stati concepiti come strumenti per misurare, prescrittivamente, le quantità di spazi
pubblici riservati nei piani urbanistici. Sono diventati la stanca formula di progettazione della città, dividendola artificiosamente in zone A, B, C, e così via,
ignorando e cancellando la complessità, la mixitè, larticolazione reale degli spazi che della città costituiscono lessenza.
Ancora un esempio. Lapplicazione pedissequa degli standard urbanistici (tanti mq per la scuola elementare, tanti per gli ambulatori, e i mercati, e le chiese, tanti per il
parcheggi, e il verde ecc.), ha condotto spesso alla suddivisione dello spazio pubblico nelle sue diverse componenti funzionali (qui la scuola, là il mercato, più in
là lasilo nido, altrove la palestra e gli impianti sportivi, altrove il parco) dimenticando linsegnamento della piazza, del luogo dove gli interessi
confluiscono e le persone sincontrano.
Ma un insegnamento negativo è venuto anche dalla politica e della società, dove si è manifestata la graduale perdita della capacità di azione
riformatrice (non riformista) da parte dei partiti, sotto la sferza del terrorismo di destra e di sinistra, e il prevalere, nella società, del rifugiarsi
delluomo nellindividualismo, nellintimismo, nel privato.
La svolta
Crisi del carattere pubblico della città
Certo è che oggi la situazione della città e lorientamento delle politiche urbane sono radicalmente diverse da quelle che la storia delle nostre città ci
suggerisce, sia che le osserviamo alla luce del lungo periodo che se ci riferiamo ai secoli più vicini.
Il carattere pubblico della città è profondamente in crisi: è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della
collettività di decidere gli usi del suolo, o attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a
costruire), oppure attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.
Oggi moltissimi, anche nellarea riformista, non si vergognano di parlare di vocazione edificatoria dei suoli, e di considerare perverso
vincolo ogni destinazione del terreno che non sia quella edilizia. Oggi si propone di sostituire la pianificazione pubblica con la contrattazione delle decisioni sulla
città con la proprietà immobiliare come nella proposta di legge Lupi per il governo del territorio, che si riuscì a fermare nella XV legislatura ma che è
oggi di nuovo in discussione in Parlamento.
Si arriva addirittura a voler decretare che il diritto di edificare appartiene strutturalmente alla proprietà del suolo. Il Disegno di legge delega in materia di
edilizia reso noto afferma che il governo è delegato a emanare norme, in particolare, per quanto riguarda la individuazione degli interventi di trasformazione
urbanistico-edilizia e di conservazione comunque realizzabili quali espressione del diritto di edificare connaturato alla proprietà fondiaria ed edilizia.
Unaffermazione che in questi termini non era mai apparsa nel diritto italiano, e che ci si era invece illusi, nella prima metà degli anni Settanta, di capovolgere
esplicitamente ne suo contrario.
Gli standard urbanistici, lo strumento di base per ottenere una quantità ragionevole di aree da dedicare agli spazi, alle attrezzature, ai servizi dinteresse comune,
sono in decadenza, e se ne propone addirittura labolizione o la regionalizzazione: come se il diritto di disporre di scuole, parchi, piazze, mercati, attrezzature
sanitarie, biblioteche, palestre fosse diverso per gli abitanti della Puglia e quelli del Veneto. Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già
acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario rigorosamente destinato dalla
legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche, gli oneri di urbanizzazione, viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per
pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.
Alle piazze reali, caratterizzate dallessere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi
inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana, si sono sostituite le grandi cattedrali del commercio, caratterizzate dalla chiusura ai diversi
(in nome della sicurezza), dallobbligo implicito di ridurre linteresse del frequentatore allacquisto di merci (per di più sempre più superflue). La
piazza, luogo dellintegrazione, della varietà, della libertà daccesso, è sostituita dal grande centro commerciale, dalloutlet,
dallaeroporto o dalla stazione ferroviaria (da quelli che sono stati definiti non luoghi). Parallelamente il cittadino si riduce a cliente, il portatore di diritti
si riduce a portatore di carta di credito.
Labitazione non è più un diritto che deve essere assicurato a tutti, indipendentemente dal reddito o dalla condizione sociale. Ognuno è solo al cospetto
del mercato, e di un mercato caratterizzato dallincidenza crescente della rendita. Cancellata da un decennio ogni risorsa destinata alledilizia sociale. Privatizzata
ledilizia pubblica, realizzata con i contributi di tutti i lavoratori. Ridotta ai margini la disponibilità di alloggi in affitto, proprio quando il lavoro diventa
precario, oggetto di un inseguimento che obbliga a una maggiore mobilità sul territorio.. Demolita ogni forma di contenimento dei canoni di locazione delle case private,
contribuendo con ciò poderosamente allaumento della povertà e dellemarginazione.
Luomo e la società
Perché tutto questo è successo? Se diamo un giudizio negativo sul cambiamento che si è manifestato, sul suo senso e sui suoi risultati, e vogliamo contribuire a
invertire la tendenza, dobbiamo innanzitutto comprendere le ragioni.
La ragione di fondo sta certamente nel mutato rapporto tra uomo e società.
I sociologi e gli antropologi hanno coniato molte definizioni per esprimere sinteticamente e criticamente la società e luomo di oggi: per denunciare una situazione che
è il punto darrivo dun progresso lungo, cominciato molto tempo fa, ma che ha ricevuto una fortissima accelerazione negli ultimi decenni.
Laspetto centrale è quello che Richard Sennett chiama il declino delluomo pubblico: la rottura dellequilibrio che lega tra loro le due
essenziali dimensioni dogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. E quellequilibrio che si esprime
fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento
della vita che si svolge nellabitazione.
Contemporaneamente, luomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero
strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. Lalienazione del lavoro prima, lalienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a
venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.
Infine, la politica è diventata a sua volta serva delleconomia, si è appiattita sul breve periodo, è divenuta priva della capacità di costruire un
convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.
Il mondo e la città
Il mondo e le città sono dominati dalla globalizzazione. Questa non è in sé un fatto negativo. Negativo è il modo in cui il neoliberalismo (la sua
ideologia e le sue pratiche) se ne è impadronito e la gestisce.
Si è diffuso ed è diventato egemone un pensiero unico, per il quale gli unici valori sono quelli partoriti, elaborati, cesellati dalla
civiltà occidentale, o atlantica. Valori e modelli di vita da imporre al resto del mondo, a civiltà diverse, anchesse forse portatrici di
verità, principi, modelli di vita dai quali magari qualcosa di utile per il miglioramento dellumanità si potrebbe assumere.
Si è diffuso un modello economico-sociale devastante, ciò che nel mondo si definisce neoliberalismo: la fase attuale del sistema capitalistico-borghese.
Inutile ricordare qui i suoi effetti sullambiente, sulle condizioni e le prospettive del nostro pianeta il vero e proprio saccheggio di risorse esauribili nella ricerca
di una continua e crescente produzione di merci sempre più gratuite, suiperflue, ridondanti, prive di finalità con i bisogni reali di crescita delluomo.
Inutile ricordare i suoi effetti sul lavoro. Questo costituisce la strumento essenziale delluomo per comprendere e trasformare il mondo di cui è parte. Esso è la
base della dimensione sociale della persona umana. Oggi è reso precario, privato dei diritti, sempre più marginale rispetto al processo delle decisioni.
Vorrei sottolineare il fatto che il neoliberalismo è la matrice culturale dellopinione corrente, del pensiero unico inculcato alla gente, e soprattutto della strategia
dalla quale nascono le politiche urbane in tuttEuropa (e nel resto del mondo).
Le politiche urbane del neoliberalismo
Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città.
Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne è una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove a differenza che altrove non
cè mai stata unamministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle
rendite.
Unaltra componente è la tendenziale privatizzazione dogni bene comune – nella città e nel territorio – che possa dar luogo a guadagni privati:
dallacqua agli spazi pubblici, dalluniversità alla casa per i meno abbienti, dallassistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel
suo insieme e nelle sue parti.
Una ulteriore componente è la progressiva riduzione degli spazi di vita collettiva e di partecipazione sociale, soprattutto a partire da due momenti:
quando lobiettivo della governabilità è diventato dominante rispetto a quello della partecipazione, e si sono impoveriti alcuni decisivi
momenti della democrazia nell ambito di tutte le istituzioni, dallo stato ai comuni;
quando il crollo delle Twin Towers ha fornito la giustificazione o lalibi alla pratica della priorità assoluta della sicurezza su qualunque altro bisogno,
esigenza, necessità sociale.
Nei confronti degli spazi pubblici si produce quindi una devastazione che ne colpisce luno e laltro versante: quello della loro consistenza fisica e quello della loro
consistenza sociale. Si riducono sempre di più gli spazi pubblici nei quali vivere insieme, come si riducono gli spazi, reali e virtuali, per la discussione, la
partecipazione, la critica o la condivisione della politica.
Che fare, oggi per domani
Un riepilogo
Credo che sia emerso chiaramente che al concetto di spazio pubblico attribuisco un significato molto ampio. È spazio pubblico la piazza, diventano spazio pubblico gli
standard urbanistici, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico lerogazione di servizi e attività aperti a tutti gli
abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dallapprendimento al lavoro. È spazio pubblico la possibilità di ogni cittadino di
partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dellattuale
configurazione della democrazia rappresentativa. Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane mediante i due
strumenti essenziali: una politica del patrimonio immobiliare che restituisca alla collettività gli aumenti di valore che derivano dalle sue decisioni e dalle sue opere, e
una politica di pianificazione del territo! rio, in tutte le sue componenti.
In questa sua accezione la conquista dello spazio pubblico è stata, ed è tuttora, il risultato di un processo storico caratterizzato da faticose conquiste e sofferte
sconfitte. Lo sarà anche in futuro. Per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle
nostre spalle, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile.
Credo di aver sufficientemente argomentato come e perché gli spazi pubblici siano oggi a rischio. Ho accennato ai rischi principali. Ho individuato la loro matrice ideologica
in quel declino delluomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; un declino che ha forse la sua radice in quellalienazione del lavoro, ossia nella
finalizzazione dellattività primaria delluomo sociale ad altro da sé, che costituisce lessenza del sistema capitalistico. E ho indicato
la loro matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici
vigenti, in Italia e altrove, e che in questi devastanti anni italiani si tende ad accentuare oltre ogni limite, decretando che il diritto a edificare è connaturato alla
proprietà fondiaria ed edilizia.
A questi rischi bisogna opporsi. Per farlo occorrono a mio parere due cose.
Da un lato, la consapevolezza piena della condizione in cui viviamo e, insieme, quella della nostra possibilità di concorrere alla sua modificazione. La storia non è
ancora scritta: siamo noi che la scriviamo. Se non abbiamo questa consapevolezza, della storia siamo inevitabilmente vittime passive e imbelli.
Dallaltro lato, la paziente ricerca degli appigli cui aggrapparsi, delle forze su cui far leva, degli interessi da mobilitare, per avviare e proseguire una linea alternativa.
Per dirla con Italo Calvino, per resistere allinferno, dobbiamo cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e
dargli spazio.
Che cosa cè nellinferno che non è inferno?
Per mezzo secolo ho lavorato attorno a questi temi come urbanista, spesso prestato alla politica. Chi ha avuto le esperienze che ho avuto io rivolge il suo sguardo in primo luogo
alla politica. È alla politica alla dialettica tra le parti che essa esprime che spetterebbe configurare e proporre un progetto di società, e
in relazione a questo un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Io li ho vissuti.
Oggi non è più così. Oggi non credo che si possa fare affidamento alla politica dei partiti. Credo che nessuno dei partiti esistenti abbia le carte in
regola.
Certo, ci sono differenze, anche forti. Per esempio, tra
– i partiti che esprimono con pienezza e arroganza gli interessi dei potentati economici e, in Italia, quelli delle componenti più parassitarie del mondo capitalistico,
– i partiti che, pur non esprimendo direttamente quegli interessi, ne condividono lideologia di fondo,: per esempio, credono ancora che il Prodotto interno lordo sia
lunità di misura del livello di civiltà raggiunto, o che il termine sviluppo coincida con quello di continuo aumento della produzione e del consumo
di merci indipendentemente dalla loro utilità umana e sociale, oppure che la governabilità sia più importante della democrazia;
– i partiti che, pur esprimendo lesigenza di una critica radicale al sistema economico-sociale e allideologia del liberalismo, non riescono a formulare unanalisi
adeguata, a costruire su di essa un progetto di società e a dare gambe sociali a unazione politica.
Oggi siamo orfani della politica. Io credo allora che, pur senza rassegnarci a questa precaria condizione, dobbiamo lavorare su due referenti, nei confronti di due recapiti.
In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso
abbarbicati al locale da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare
le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le
cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
Mi sembra che un recente segnale molto positivo della forza e dellintelligenza critica latenti nella società, espressiva di principi di solidarietà e di
consapevolezza del ruolo insostituibile della presenza pubblica, sia rappresentata dallOnda che si è sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutte le sue componenti:
dalle primarie alle università, dagli studenti ai docenti al personale ausiliario.
Laltro interlocutore cui dobbiamo guardare sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima,
perché più sensibile al locale, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere
una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici patrie di cui ciascuno di noi è
cittadino: dal paese e dal quartiere, dalla città alla regione e alla nazione, allEuropa e al mondo.
Sono convinto che in questo lavoro un compito grande spetti agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro
specifico campo dazione. Siamo intellettuali, siamo depositari dun sapere che dobbiamo amministrare al servizio della società. Dobbiamo saper ascoltare la
società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta. E a quelle esigenze
dobbiamo saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni Sessanta.
Comprendere le esigenze che affiorano e saper fornire i saperi necessari a trovare le parole dordine giuste. E raccontare, in termini semplici e fuori dal nostro glossario, in
che modo le pratiche correnti della urbanistica reale rendano più povera, più precaria, più difficile la vita delle donne e degli uomini, in
particolare delle componenti più deboli.
Edoardo Salzano
È nato a Napoli nel 1930. Urbanista, già professore ordinario all’Università Iuav di Venezia, dove è stato preside della Facoltà di pianificazione
del territorio. È stato amministratore comunale (a Roma e a Venezia, dove ha curato il piano per il Centro storico) e regionale (nel Veneto). Ha collaborato alla redazione di
piani urbanistici e territoriali comunali e provinciali e di atti legislativi in materia di urbanistica. Autore di numerosi libri, tra cui Urbanistica e società opulenta
(1969), Fondamenti di urbanistica (1995), Ma dove vivi? (2007), gestisce il sito web eddyburg.it.