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Cittàterritorio festival, l’antropologo Francesco Remotti affronta uno dei nodi sociali più attuali
“Il mito dell’identità primo ostacolo sulla strada della convivenza”

17-04-2009

“Viviamo una fase di grande impoverimento culturale e di assolutizzazione del concetto di identità: due condizioni che complicano enormemente la nostra capacità
di convivenza con gruppi di religione, lingua, culture differenti”. L’antropologo Francesco Remoti, intervenendo a Cittàterritorio festival stimolato dalle domande
di Maria Serena Palieri, redattrice dell’Unità, ha affrontato, dalla sua particolare prospettiva, quella che rischia di diventare una vera emergenza sociale.
“E’ piuttosto diffusa l’idea che le diversità non possano convivere o nelle migliore delle ipotesi vadano salvaguardate assegnando a ciascuna spazi autonomi di
espressione secondo un principio di tolleranza”. Ma la tolleranza, ha spiegato, “agisce sulla base di una logica di ‘categoria’, che prescrive cosa può
stare insieme e cosa va separato. E’ solo il primo passo – ha aggiunto – verso il ‘riconoscimento’ che viceversa agisce sulla base delle
‘relazioni’ che sono per loro natura mutevoli, vari! abili e dotate di un potenziale persino eversivo”. Richiamando vari esempi di società che grazie alle
differenza hanno trovato coesione, Remotti ha chiarito il climax fra tolleranza, coesistenza, convivenza, simbiosi.

“L’identità, un vero e proprio mito dei nostri tempi, è ciò – ha sostenuto – che fa maggiormente ostacolo allo sviluppo di una cultura della
convivenza: la rende molto precaria, incerta, assai poco praticabile. L’identità stabilisce infatti il principio che ‘noi’ (qualsiasi ‘noi’: europei,
italiani o padani) è dotato di una ‘sostanza’ e tutte le strategie del ‘noi’ saranno indirizzate a difendere questa realtà; ogni relazione con gli
altri appare infatti come una minaccia, come un rischio costante di alterazione”.
“Per la sua stessa struttura concettuale – ha affermato ancora – l’identità non riesce a concepire una convivenza se non in termini di separazione:
‘noi’ e gli ‘altri’, più che convivere, possono coesistere entro uno spazio dato; l’avvicinamento tra queste entità è pericoloso;
quindi si fa di tutto per mantenere distanze di sicurezza e circoscrivere rigorosamente gli ambiti di interazione. Il massimo a cui può giungere l’ideologia
dell’identità è – appunto – la tolleranza: un principio sacrosanto, che il pensiero filosofico e politico occidentale – dopo le terribili guerre di
religione – ha concepito come una conquista culturale irrinunciabile. Ma che rapporto c’è tra tolleranza e convivenza? La tolleranza è il grado minimo della
convivenza. E se non si aggiunge qualcosa d’altro, non rimane che fare nostro il pensiero di Goethe: tollerare è come insultare. La tolleranza dovrebbe essere un
passaggio verso il vero ‘riconoscimento’.
“Con il riconoscimento – ha concluso Remotti – entriamo in un’altra logica rispetto a quella identitaria: entriamo nella logica delle relazioni, anziché nella
logica delle sostanze. Le relazioni diventano prioritarie. I gruppi riconoscono le loro incompletezze e le loro reciproche dipendenze, e non soltanto sul piano commerciale. La
nozione di ‘interesse’ tende a svilupparsi e articolarsi. Lo scambio non è più meramente economico. Gruppi diversi, portatori di lingue, culture, religioni
differenti, possono inventare forme di collaborazione a cui gli antropologi hanno dato persino il nome di ‘simbiosi’. E’ possibile la convivenza interculturale, anche
tra culture notevolmente diverse. La condizione è quella di non lasciarsi irretire dal mito dell’identità e rendere attivo invece – d’accordo con gli altri –
il principio della propria incompletezza. In questa maniera, molte società hanno trovato di che convivere, riuscendo persino a ‘domesticare’ i conflitti e a
trasformarli in ! motivi di convivenza”.



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